lunedì 9 gennaio 2017

Abzû e l'arte di scimmiottare la bellezza



Senza alcun dubbio Abzû è uno dei titoli che ho maggiormente  prima atteso e poi apprezzato del 2016. L'impatto visivo, l'art direction di prim'ordine, l'eleganza della vita sottomarina in tutta la sua esplosione di colori e movimenti rapidi e delicati, le musiche che accompagnano ogni momento dell'avventura mi hanno stregato. Eppure c'è qualcosa che per tutto il tempo non mi ternava, che mi stonava e che mi ha lasciato in qualche modo non pienamente soddisfatto.
Dopo alcune riflessioni l'ho capito.
Semplicemente Abzû non è Journey.




Il primo pensiero che in molti hanno avuto all'annuncio del titolo è stato, infatti, "è Journey, sott'acqua". E come dargli torto? A prima vista, dopotutto, a risaltare sono i tratti in comune più che palesi: l'avventura in un misterioso luogo esotico e lo stile del comparto visivo e sonoro. Purtroppo però è forse questo il limite di Abzû, lo "scimmiottare" il suo fratello maggiore.
Quello che infatti resta più impresso dell'opera magna di That Game Company è il fatto che i suoi reali pregi risiedano ben al di là di quello che potrebbe essere il primo, seppur sbalorditivo, colpo d'occhio. C'è un sapiente utilizzo del linguaggio ludico nella creazione di quello che è l'archetipo del viaggio.
Journey è un'esperienza da vivere, con la quale avere un contatto diretto è che sfrutta uno degli elementi più ingenuamente sottovalutati quando si parla di narrativa videoludica: il multiplayer. È proprio qui che risiede la vera forza, il balzo finale che fa spiccareil volo all'opera e che l'eleva nell'olimpo del medium proprio come il nomade alla fine del suo viaggio. 


Journey è un titolo complesso da trattare (e forse io non sono la persona più adatta a farlo, almeno, non per ora) ma credo che ciò che lo contraddistingue è la capacità di dar vita ad emozioni pure non soltanto artisticamente e narrativamente ma, e sopratutto, ludicamente poiché in grado di creare un legame.
Un legame silenzioso, fatto di suoni e di movenze eleganti, ma in grado di mettere in contatto due sconosciuti (non conoscerete il nome dei vostra compagni di viaggio sino ai titoli di coda), dar vita, come detto, ad un legame.
Alla fine delle vicissitudini ci si sente appagati non tanto per il risultato ottenuto ma per ciò che si è passato. Non ci sono bivi narrativi in Journey, non ci sono nuove "sfide" (l'unica feature è la presenza di una cappa speciale ottenibile collezionando tutti i glifi) eppure è forse uno dei titoli più rigiocabili al mondo e questo perché ogni esperienza è resa unica da quegli ignari viandanti con cui di volta in volta viene portata a termine.


E questo purtroppo è il muro contro cui si scontra la produzione Giant Squid, il "limitarsi" ad essere un'ottima esperienza, ad essere un orgasmo audiovisivo capace di tenerci incollati allo schermo per qualche ora senza però essere in grado di cogliere, rielaborare e far propria l'essenza del precedente progetto a cui hanno preso parte diversi elementi del team (Matt Nava, a capo del team, non a caso è stato l'art director di Flower e Journey).


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