martedì 22 gennaio 2019

Drowning - Recensione


Archiviato il nostro consueto appuntamento most wanted per l'anno appena cominciato, è giunto il momento di tornare a recensire giochi.
Se lo scorso anno ad aprire le danze fu un titolo da me a lungo atteso come Where the Water tastes like Wine (che non disattese per nulla le mie alte aspettative), quest'anno l'onore e l'onere è di una produzione letteralmente piovuta dal cielo.
Vediamo quindi che cos'ha da offrire Drowning.



Il videogioco, viste le sue caratteristiche peculiari, si è rivelato essere un mezzo estremamente efficace per la trasmissione di "messaggi" dall'autore al fruitore di un determinato prodotto.
Non c'è quindi da stupirsi se spesso gli sviluppatori sfruttino le proprie opere come strumento di sfogo emotivo, per cercare di esprimere il proprio stato d'animo, universalizzandoli e cercando di farli comprendere ai giocatori.
Questo è quello che ha tentato di fare anche Polygonal Wolf con Drowning, non riuscendo però a trovare una convincente soluzione espressiva.


Chi mi conosce sa quanto io apprezzi i cosidetti "walking simulator" (per quanto mi faccia schifo tale definizione) ed il titolo rientra a pieno diritto in questa categoria proprio perché dovremo semplicemente camminare lungo un percorso ben delineato leggendo i pensieri che affollano la testa del personaggio di cui vestiremo i panni.
Il gioco si presenta a tutti gli effetti come una sorta di viaggio interiore ed esteriore alla riscoperta di sé stessi, delle proprie debolezze e dei propri punti di forza nel tentativo di affrontare o soccombere ad un male onnipresente: la depressione.
È proprio qui, nel punto in cui Drowning dovrebbe risplendere, che tutto crolla come un castello di carte.
Parlare di depressione non è sicuramente semplice, così come non lo è trattare innumerevoli argomenti complessi e delicati, eppure non pochi sono i casi di autori capaci di trattarli con eleganza e creatività (prendete That Dragon, Cancer, capace di mettere in luce la tragedia di una famiglia con una delicatezza ed efficacia da applausi) purtroppo, però, Polygonal Wolf, non è riuscito a rientrare tra questi.


La progressione risulta infatti fin troppo didascalica, fine a sé stessa ed autoreferenziale. Non avendo alle spalle una struttura ludica forte, il progetto dovrebbe appoggiarsi o alle peculiarità del mezzo espressivo (l'interattività del videogioco) o ad una scrittura di livello che ne possa gisutificare la progressione. Al contrario, il giocatore si limita a camminare e leggere frasi alquanto scontate e prive di mordente, che non permettono in alcun modo di entrare in empatia con quello che il gioco vorrebbe trasmettere.
Neanche la direzione artistica, da questo punto di vista, giunge in soccorso, limitandosi a proporre atmosfere sì in linea con la progressione ma non in grado di risplendere o far risaltare il messaggio. E sia chiaro, io adoro gli stili minimalisti (e richiamo nuovamente That Dragon, Cancer alla vostra attenzione) ma a mancare è proprio il mordente, quel quid in più che permetta di essere rapiti da questo mondo che dovrebbe riflettere gli stati d'animo di un ragazzo in piena crisi esistenziale.
Discorso identico vale per l'accompagnamento sonoro.


A chiudere un quadro non proprio esaltante ci pensa un comparto tecnico altalenante. E questo è qualcosa di davvero ingiustificabile in una produzione di questo tipo. Cali di frame, stuttering, pop-up di texture e di interi elementi dello scenario saranno all'ordine del giorno, specie nelle prime fasi di gioco nei quali ci muoveremo all'interno di quella che dovrebbe essere una foresta. E ripeto ancora, in un progetto così minimalista, facilmente gestibile sul lato tecnico, sbavature di questo tipo sono inaccettabili.


In sostanza quello che resta una volta completata la breve esperienza offerta da Drowning (non che per me la durata di un titolo abbia qualche rilievo, se non in casi particolari) è la sensazione di avere tra le mani un semplice sfogo, ma senza una vera progettualità alle spalle. Qualcosa fatto di puro instinto attraverso il mezzo più familiare all'autore ma incapace di divenire qualcosa di più una volta divenuto di dominio pubblico ed anzi, mettendo un luce tutti i propri e pesanti limiti.
Peccato.

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