lunedì 9 dicembre 2019

Lost Ember - Recensione


In questi giorni stanno spuntando ovunque post e articoli che seguono questa falsa riga "Top 10 videogiochi del decennio" "I migliori videogiochi dal 2010 al 2019", spesso incentrati su quanto alcuni titoli abbiano influenzato in maniera profonda questa decade videoludica. E di certo non stupisce come in tali liste spunti spesso e volentieri "Journey". 
L'opera di ThatGameCompany ha infatti, e a giusta ragione, il via ad un lungo filone di totoli definibili "esperienziali" (o, ingiustamente, "walking simulator") che ci accompagna con alti e bassi da ormai due generazioni di console..
Tra i numerosi "figli" della creatura di Jenova Chen e soci c'è anche Lost Ember, primo nato di Mooneye Studios, e titolo da me fortemente sostenuto e pubblicizzato nel corso degli anni.
Ora è finalmente tra noi, vediamo qual è il risultato finale.


Come detto, ho fortemente supportato Lost Ember nel corso degli anni, caricandolo (e caricandomi) di aspettative forse anche eccessive per un team al suo esordio. Eppure il gioco stesso non ha mai nascosto le proprie ambizioni, sin dal primo trailer e dai vari post pubblicati sui vari social durante lo sviluppo.
Ed infatti i primi momenti sembrano proprio presagire la capacità del progetto di poter reggere la forte pressione creatasi sopra di esso sino alla release. 
I primi due capitoli scorrono piacevolmente, vestire i panni del lupo (tolto un'animazione di salto alquanto sgraziata) è piuttosto piacevole, correre per le praterie da una certa sensazione di libertà, e l'incontro con i primi animali presenti nel mondo di gioco da freschezza alle meccaniche da poco presentate, il tutto sostenuto da una colonna sonora evocativa e di sicuro impatto che ci saprà accompagnare egregiamente per tutto il corso dell'avventura alternando melodie malinconiche ad altre più distese e rilassanti.
Inoltre, la direzione artistica permette di chiudere un occhio, inizialmente, ai numerosi problemi tecnici che infestano il gioco, grazie ad un uso sapiente della palette cromatica e a scorci evocativi capaci in alcune circostanze di lasciare veramente di sasso (effetto ottenuto tramite il supporto della sovracitata OST).


Avrete notato, però, come io abbia sottolineato il tutto con la ripetizione di "inizialmente" riferito al saper nascondere e cammuffare i vari problemi del gioco. Ed il motivo è semplice: purtroppo, progredendo nel nostro viaggio di scoperta e ricordo, essi emergeranno in maniera sempre più invadente.
A cominciare da i problemi tecnici di cui ho fatto cenno. Sovente avremo a che fare con elementi amalgamati goffamente con lo scenario, compenetrazioni poligonali ed animazioni legnose o (in alcuni casi) assenti per alcuni degli animali con cui potremo interagire, fino a veri e propri piccoli orrori (i pesci che nuotano fuori dall'acqua sono una costante dei miei incubi negli ultimi giorni).
A questo va aggiunto un grave problema di stabilità, con cali di frame e, purtroppo, freezing di diversi secondi non così tanto sporadici da poter chiudere un occhio, specie se durante momenti dal forte impatto emotivo e/o scenico.


Il vero scoglio del titolo non è però da ricercare nelle sue criticità del codice, comunque sopportabili, ma con quelle concettuali.
Cavallo di battaglia della produzione è infatti la possibilità di prendere possesso di varie animali in modo da poterne sfruttare le capacità per progredire nell'avventura, dando vita, almeno in potenza, ad una sorta di sandbox in cui le abilità delle creature possano svolgere la loro funzione in modo più o meno creativo. Peccato soltanto che, nel complesso (tranne rare occasioni), il tutto si riduca ad una meccanica funzionale al contesto. Ogni animale è posizionato in modo tale da essere utile ed utilizzabile in quella determinata situazione, esaurendo poi la sua funzione, svilendo le buone idee messe sul tavolo e mettendo sempre più in ombra quegli animali votati più all'arricchire il mondo di gioco che allo svolgere una vera funzione ludica (una lenta tartaruga di terra confinata in un isola non avrà mai uno socpo in un'area aperta esplorabile comodamente con un pappagallo posizionato comodamente nella zona. Od un elefante, utile soltanto per districarsi tra i bambù, tranquillamente sorvolabili dallo stesso pennuto). Avete presente il problema che ci fu nel passaggio della saga di Halo da Bungie a 343 industries, con la graduale scomparsa di quel fantastico sandbox creato nella trilogia originale? Ecco qui la situazione è simile, nonostante gli enormi spazi aperti la libertà di approccio viene ridotta all'osso e resa funzionale al raggiungimento dell'obiettivo successivo.


Non bastano in tal senso i collezionabili inseriti, in maniera abbondante, nei vari livelli e divisi in due macro categorie: reliquie e funghi. E mentre le prime hanno una loro dimensione, essendo (eccezion fatta per alcuni easter egg) legate al mondo di gioco in maniera intelligente, con un posizionamento coerente rispetto alla singola location ed espandendo, seppur in modo marginale, la narrazione di fondo, i secondi, purtroppo sono un puro e semplice riempitivo fine a sé stesso, senza accordarsi al contesto se non per un puro discorso naturalistico.


Fino ad ora ho però rimandato qualsiasi discorso legato alla narrazione e alla scrittura del gioco, ma  è arrivato il momento. Sarò sincero, di tutti gli elementi che avevano attratto la mia attenzione quando entrai in contatto per la prima volta con il gioco, la trama è quello che mi aveva meno intrigato per cui non avevo troppe aspettative a riguardo, ipotizzando un racconto di contorno in grado di fare da filo conduttore all'esperienza.
Eppure il team ha voluto tentare qualcosa di più in tal senso, donando ampio spazio al racconto e alla scoperta scegliendo la via più diretta della narrazione tramite cinematiche. 
In tal senso, pur non sfruttando appieno il racconto ambientale (prerogative di opere come il sempre caro Journey) la storia offre spunti interessanti e che rivelano una certa maturità di fondo, pur proponendo un canovaccio piuttosto abusato.
Il problema però nasce nel momento in cui il nostro "spirito guida" inizia a parlare. Il luminoso compagno di viaggio, infatti, si prodigherà spesso e volentieri in lunghe spiegazioni che vanno a sovrapporsi ai filmati. E se tale caratteristica, nella prima metà del gioco, potrà ricollegarsi alla natura di fierò abitante di quella che un tempo era una civiltà gloriosa, nella seconda parte, quella più emotivamente coinvolgente (almeno sulla carta), esso si trasformerà in un blando espositore delle vicende, cercando, attraverso le sue spiegazioni, di indirizzare le emozioni del giocatore in maniera poco elegante e tendente al patetismo. E questo è un vero peccato perché sono proprio i momenti di silenzio, in cui sono le immagini a parlare, che si viene davvero coinvolti (o almeno in parte) da un racconto che qualcosa da dire in effetti lo ha ma, come detto, viene affossato da quella che probabilmente è un'insicurezza dello stesso team di sviluppo. 


Eppure, nonostante i problemi da me elencati - che non possono essere di certo nascosti sotto un tappeto - io ho apprezzato Lost Ember, perché quando le cose funzionano il titolo si lascia giocare piacevolmente grazie alla sua direzione artistica, a momenti di sicuro impatto sia scenico che emotivo e ad alcune meccaniche interessanti seppur limitate rispetto al loro potenziale.
Il progetto Mooneye Studios non è di sicuro perfetto, con difetti che vanno ad intaccarne l'esperienza anche in maniera marcata, ma resta un titolo per il quale consiglio a tutti di concedere una chance, sperando, inoltre, che questa mia recensione, dura e critica, possa essere utile al team di sviluppo in futuro, il cui talento emerge, seppur a tratti, nel corso del viaggio del Lupo.


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